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Hei, Mister Lennon

8 dicembre 1980

Pezzi bianchi e pezzi neri. Jo e Yumi. Yumi e Jo.

Gli scacchi erano il loro terreno d’incontro.

«E questa che cosa è?» chiese Jo trovandosi davanti al posto dei pancakes e del caffè della colazione una scacchiera di soli pezzi bianchi.

«Ti piace? L’ho costruita per te, per noi» disse Yumi con aria distratta.

«Ma come facciamo a giocare? Così è impossibile vincere, non riuscirei neanche a riconoscere i miei pezzi.»

«Perché non è un campo di battaglia, amore mio, non combatterò contro di te, non combatterai contro di me. Vuoi provare?»

Troppo vicini, così lontani.

L’una di fronte all’altro. Le dita sui pezzi e gli occhi negli occhi dell’altra. Dell’altro. Bianco su bianco, il solo nero possibile è la rete di quadrati sulla tavola.

Giocano e si guardano. Ognuno sa che cosa sta pensando l’altro, o crede di saperlo.

Pollice, indice, medio, un grumo di polpastrelli che non si decide ad artigliare il cavallo. Bianco.

A chi tocca? Senza più muovere nulla, se non gli occhi negli occhi, hanno perso la nozione del tempo. La partita si è confusa. Come si fa a giocare contro la persona che ami? Chiamarla avversaria?

Non c’è vittoria. Non c’è patta. È un’altra storia.

Il tempo era scaduto. Dovevano correre allo studio di registrazione.

«Aspetta! Fammi fare l’ultima mossa» disse Jo indispettito.

«Come vuoi. Ma la partita la vince chi fa il penultimo errore. Sei sicuro di voler rischiare?»

«Okay. Finiremo stasera. Dopotutto mi piace che fra noi la partita sia sempre aperta.»

La penultima mossa

 La penultima mossa – Morellini editore

Quando Lennon e Yoko Ono uscirono dal portone del Dakota per salire sulla limousine e recarsi allo studio di registrazione, furono circondati da un gruppetto di fan in cerca di autografi. La sera dell’ 8 dicembre non era diversa dalle altre. Era pratica rituale per i fan ritrovarsi sulla 72esima strada, davanti al grande portale ad arco ribassato, ornato di grosse lanterne in ferro battuto, per vedere Lennon e chiedergli l’autografo.

L’albergo ocra, dall’aspetto austero, con i tetti pronunciati a cuspide, le numerose balaustre, le nicchie, gli abbaini e i pinnacoli, era un custode rigoroso della coppia che negli ultimi tempi amava vivere lontano dai riflettori.

Ma lo sguardo severo del Dakota nulla poteva davanti alla determinazione dei fan di Lennon che arrivavano da tutte le parti per vederlo.

Quella sera c’era anche lui. Mark David Chapman. Venticinque anni, guardia di sicurezza di Honolulu, nelle Hawaii. Non era la prima volta che veniva a New York per incontrare il suo mito, ma sarebbe stata l’ultima. Aspettava fuori dall’hotel dalle prime ore del mattino e nell’attesa aveva anche incontrato il figlio della Ono e di Lennon che rincasava con la tata.

New York era sepolta dalla neve. Durante la notte precedente un manto bianco e spesso aveva coperto le strade, i marciapiedi, la sporcizia, le scale antincendio, gli alberi. I grattacieli di Manhattan luccicavano in fondo alle vie come stelle, indicando la posizione a chi sapeva leggere quella mappa. I fiocchi di neve argentei scendevano lenti, in turbini pigri, fitti e copiosi, smorzando tutti i rumori e rendendo l’aria distante e impalpabile. Sotto i lampioni i coriandoli di neve brillavano e danzavano intorno alla luce, come i moscerini d’estate.

Finalmente l’attesa era finita.

In assoluto silenzio Chapman  porse una copia del disco “Double Fantasy” a Lennon che la autografò.

«Is this all you want?» (È questo tutto quello che vuoi?)

Il ragazzo non rispose. Annuì timidamente e si allontanò. Poteva finire tutto qui con la foto di Paul Goresh che  immortalava la scena dell’autografo con Chapman che osserva sorridente Lennon.

Non si potrà mai sapere che pensieri balenarono nella mente del ragazzo mentre la coppia si dirigeva al Record Plant.

Non si potrà mai sapere come impiegò il tempo sospeso mentre la coppia lavorava nello studio di registrazione.

Non si potrà mai sapere che cosa vibrò nella sua testa mentre la coppia saliva sulla limousine per tornare al Dakota.

Ma il mondo intero sa che cosa avvenne dopo.

Ore 10.50 pm

« We pass by the house before going to the restaurant. I promised Sean I’d say goodnight » (Passiamo da casa prima di andare al ristorante. Ho promesso a Sean che gli avrei dato la buonanotte) disse John a Yoko.

« But it is very late, by now he will be sleeping.» (Ma è tardissimo, ormai starà dormendo.)

« I promised it and I will do it, I can’t disappoint him. I don’t want to disappoint anyone, you know.» (L’ho promesso e lo farò, non posso deluderlo. Non voglio deludere nessuno, lo sai.)

« But he won’t even remember it.» (Ma non lo ricorderà nemmeno.)

«I do, though.» (Io sì, però.)

La limousine si fermò sulla strada davanti all’ingresso al civico 1 di West 72nd Street invece di parcheggiare nel più sicuro cortile del Dakota. La vita, a differenza degli scacchi, non è tutta bianca o nera, è fatta di sfumature che colorano il destino.

«Hei Mister Lennon!» (Hei, Signor Lennon!)

In piedi, nell’ombra, accanto al portone di ingresso c’era Mark David Chapman. A Lennon parve di riconoscerlo anche se adesso nel suo sguardo c’era poco del timido ragazzo che alcune ore prima gli sorrideva mentre lui firmava la sua copia di “Double Fantasy”. C’era una luce diversa, che scintillava nel buio. Un guizzo di lucidità. Una stilla di follia.

Champan si accovacciò in ginocchio, prese la mira.

Sparò cinque colpi con una Charter Arms 38 Special da una distanza di circa tre metri. Il primo colpo mancò il bersaglio sorvolando la testa di Lennon e andando ad infrangere una finestra del Dakota. Due proiettili colpirono John sul lato sinistro della schiena, altri due gli perforarono la spalla. Uno dei colpi trapassò l’aorta.

Sanguinando copiosamente dalle ferite e dalla bocca, Lennon salì cinque scalini cercando di raggiungere l’ingresso dell’hotel.

«I’m shot… I’m shot!» (Mi hanno sparato!)

In un secondo Yoko Ono era accanto a lui.

«John… John can you ear me?»(John… John puoi sentirmi?)

«I’m dying…» (Sto morendo…)

«Don’t say that, everything will be fine…» (Non dire così,  tutto andrà bene…)

« True! And if it doesn’t go well then it’s not the end.» (Vero! E se non andrà bene allora non è la fine.)

Chapman si era seduto sul bordo del marciapiede ad aspettare. Sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata la polizia.

Si era tolto il cappotto per dimostrare che non aveva altre armi se non la 38 Special che teneva ancora in mano. Il custode del Dakota corse da lui e gliela strappò di mano.

«Do you know what you’ve just done?» (Sai che cosa hai appena fatto?) urlò in faccia al ragazzo.

«Yes, I just shot John Lennon.» (Sì, ho ucciso John Lennon.)

 Non è andata bene. Ma aveva ragione lui, non era la fine.

Lennon diceva sempre che la vita è quello che accade quando si stanno facendo altri progetti.

Ma anche quando il mondo si rovescia, il mito sopravvive.

 

 

 

A presto!
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