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Creare è qualcosa che non finisce mai

Ci sono personaggi che non dovrebbero morire mai. Interviste che vorresti durassero giorni. Mi piace riproporre questa al Maestro Eugenio Carmi fatta pochi anni prima della sua scomparsa.

Carmi era tornato a Genova nella “sua” Galleria di Boccadasse con la mostra “La trasparenza inquieta” nel 2013 in occasione di un anniversario speciale: i cinquant’anni dalla nascita della Galleria del Deposito: una storia legata alle avanguardie artistiche degli anni sessanta, dove si sono incontrate le diverse esperienze di pittori, fotografi, grafici ed editori. Uno spazio autogestito ideato per la realizzazione e vendita di multipli, serigrafie, oggetti di arredamento, foulard e per ospitare mostre e a pubblicare un “giornale” che ne raccontasse le evoluzioni e le novità. Il “Deposito” nacque il 13 settembre del 1963 a Boccadasse quando Eugenio Carmi e sua moglie Kiky Vices Vinci, insieme a un gruppo di amici riunito in cooperativa – c’erano Bruno Alfieri, Kurt Blum, Flavio Costantini, Germano Facetti, Carlo Fedeli, Emanuele Luzzati, Achille Perilli – decisero di riprendere in mano un vecchio magazzino – un ex deposito di carbone – per creare una galleria. Il 23 settembre del 1963 con il titolo Sedici quadri blu inaugurò la prima mostra. Da allora il “Deposito” ha portato a Genova autori molto noti sia stranieri, come Max Bill, Dusan Dzamonja, Richard Paul Lohse, Victor Vasarely, che italiani come Piero Dorazio, Lucio Fontana, Achille Perilli, Arnaldo Pomodoro. Eugenio Carmi, oggi 93enne, ne parla volentieri; ricordando quegli anni un po’ magici come un’esperienza unica.

Che ricordi ha degli inizi della sua avventura con la Galleria del Deposito? «A Boccadasse, dove abitavo con la mia famiglia, c’era in affitto un vecchio deposito di carbone. Ne parlai con l’amico Popi Fedeli: da tempo desideravamo offrire arte a prezzi accessibili. Prendemmo in affitto lo spazio e il nome fu “Galleria del Deposito” che si inaugurò nel novembre 1963.»

Quali artisti di questo periodo ricorda maggiormente? «In quegli anni ero amico, o avevo contatti, con molti artisti italiani ed europei con i quali mi misi in relazione e con alcuni di loro, italiani, creammo una cooperativa con atto notarile, chiamata “Gruppo Cooperativo di Boccadasse”. Il nostro scopo era quello di produrre arte moltiplicata (oggetti e grafiche) a basso prezzo. Riuscimmo a farlo domandando agli amici artisti di darci un progetto senza alcun compenso, condividendo con passione le nostre idee. Alcuni nomi: Soto, Adami, Del Pezzo, Baj, Fontana, Morandini, solo per citarne alcuni.»

La scelta di aprire in un piccolo borgo come Boccadasse è stata limitativa o si è dimostrata una scelta vincente? «La scelta fu superiore alle nostre aspettative. Anche negli Stati Uniti, dove la gallerista Eugenia Butler ci rappresentava, la nostra produzione era nota.»

Come si è avvicinato all’arte? «Non so, credo che sia stata l’arte ad avvicinarsi a me.»

Quali sono stati i suoi maestri? «Insieme a Kiky Vices Vinci, che poi sarebbe divenuta mia moglie e fummo insieme per oltre cinquant’anni, prendemmo lezioni subito dopo la guerra dallo scultore genovese Guido Galletti. Poi, nel 1948, andai a Torino nello studio di Felice Casorati: un vero signore e un grande pittore da me guardato con molta passione.»

L’amicizia con Umberto Eco è un punto fondamentale della sua carriera. Come nacque e quale fu la chimica dell’incontro? «L’amicizia nacque così. Io nel 1956 ero stato chiamato dal Direttore Generale della Cornigliano (poi Italsider) ad essere il responsabile dell’immagine. Gianlupo Osti era un dirigente olivettiano e affermava che l’industria doveva produrre cultura. Volle pubblicare un libro sulla storia del ferro. Gli proposi (e lui accettò) di domandare un testo ad Umberto Eco del quale avevo letto degli scritti che mi avevano colpito. Cercai Eco; allora aveva 24 anni, scrisse un testo straordinario. Da allora siamo amici.»

Infatti dal ’56 al ’65 è stato responsabile dell’immagine dell’Italsider. Cosa le ha dato questa collaborazione? «Creare l’immagine dell’Italsider è stata per me un’esperienza eccezionale. Passati tanti anni ancora se ne parla e se ne scrive.»

L’arte contemporanea non sembra avere un’ identità. Lei ha dichiarato di preferire il “pensare a Pitagora, a Talete, ad Archimede, a Fibonacci”. La situazione è così drastica? «La crisi che stiamo vivendo ha un influenza su tutte le attività umane e molto sull’arte contemporanea, il cui giudizio si potrà dare solo fra molti anni. Io ho una mia concezione dell’arte e, da un paio d’anni, sto lavorando sulle misteriose leggi della natura.»

La sua nuova mostra si intitola “La Trasparenza inquieta”, perché? «Si chiama così perché una delle vetrate esposte ha il titolo “Il mondo è inquieto”.»

Cosa la affascina del vetro? «Penso alle vetrate straordinarie delle cattedrali gotiche. Quando Lino Reduzzi, il bravissimo maestro vetraio, mi ha telefonato per realizzare le mie vetrate, ho accettato con gioia. Gli ho dato i progetti ed è iniziata la nostra collaborazione.»

 E’ stato un lavoro tecnicamente difficile ed impegnativo? Quali sono state le fasi tecniche? «Ognuno ha fatto il suo lavoro.»

C’è qualcosa che le è mancato in tutti questi anni? O qualcosa che non rifarebbe? «Creare è qualcosa che non finisce mai.»

A presto!
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